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Vecchio 23-01-2010, 22:48   #1
Entropy
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[PIANTE/CHIMICA] La Fotosintesi in acqua

Con questo topic vorrei cercare di approfondire (almeno parzialmente) tutto ciò che riguarda e che ruota intorno alla fotosintesi in acqua(rio), analizzando le diverse variabili che intervengono in questo processo, le relazioni che intercorrono con la fisiologia e la morfologia delle piante ed i parametri su cui poter agire.
Riprenderò alcuni discorsi e argomenti già trattati in AP nel corso degli anni e ne aggiungerò di nuovi.
Ogni tanto farò riferimento a nozioni “accademiche”, almeno quel tanto che basta per far comprendere i meccanismi che si celano dietro la crescita di una pianta (mi riferirò comunque, salvo indicazione, solo ai processi di fotosintesi delle piante superiori, compresi muschi, felci ed alghe verdi).
La fotosintesi, come ovviamente molti di voi sanno, è la sintesi di composti organici partendo da composti inorganici, attraverso l’energia luminosa (quella del Sole, se parliamo di Madre Natura), con un’efficienza di conversione da energia luminosa ad energia chimica del 27% (può non sembrare, ma è un valore assai alto).
La formula, che tutti noi, prima o poi, abbiamo incontrato a scuola, è la seguente:
6CO2 + 6 H2O + luce --> C6H12O6 + 6 O2
In realtà, il glucosio non è il vero prodotto finale della fotosintesi (ma lo sono i triosi fosfato) ma la sua energia è comparabile.
Per semplificare la formula, possiamo scrivere:
CO2 + H2O + luce --> (CH2O) + O2
Per far procedere questa reazione servono in teoria 467 KJ/mol, in pratica 9-10 fotoni di luce (circa 1760 KJ/mol, se consideriamo una lunghezza d’onda di 680 nm), con una conversione appunto del 27% ([467/1760]x100). La maggior parte di questa energia accumulata serve per il sostentamento della pianta e solo una piccola porzione per l’aumento di biomassa.
Ora, la fotosintesi delle piante si divide in 2 fasi: una in cui l’acqua si ossida a ossigeno e si produce energia (sotto forma di molecole di ATP e NADPH) e un’altra in cui avviene la riduzione del carbonio (utilizzando l’energia prodotta dalla prima fase).
La prima fase (''reazioni alla luce della fotosintesi''), utilizza appunto la luce per produrre energia : l'H2O viene ossidata in O2 (è dall'acqua che viene l'ossigeno e, per produrlo, alla pianta basta letteralmente un lampo di luce) per cedere gli elettroni al fotosistema II e al fotosistema I, due fotoreazioni collocate nelle membrane tilacoidali dei cloroplasti. Tali fotosistemi producono energia chimica assorbendo la luce nel rosso (680 nm, fotosistema II) e nel rosso lontano (700 nm, fotosistema I) grazie ad un particolare pigmento collocato nel centro di reazione, la clorofilla a. La clorofilla è quindi quel meraviglioso pigmento fotosintetico responsabile dell’assorbimento e l’utilizzo dell’energia luminosa. Chimicamente parlando (e semplificando), la clorofilla è un anello porfirinico con al centro un atomo di magnesio e con una lunga “coda” idrocarburica che serve alla molecola per ancorarsi alla porzione idrofoba della membrana. Oltre alla clorofilla a, si conoscono anche le clorofille b, c, d, ed e, a cui si devono aggiungere le batterioclorofille (a,b,c,d,e,f,g) tipiche di alcuni procarioti (= batteri) e gli altri pigmenti fotosintetici, quali carotenoidi (presenti in tutto il regno vegetale) e ficobiliproteine (nelle alghe rosse e nei cianobatteri). Le clorofille a e b sono presenti in tutte le piante superiori, nei muschi, nelle felci e nelle alghe verdi. La clorofilla a è presente anche nelle diatomee, dinoflagellati ed alghe brune (che hanno anche la c) e nelle alghe rosse (che hanno anche la d).
Le clorofille diverse dalla a (ma anche la a, quando non è coinvolta nei centri di reazione) ed i carotenoidi servono da pigmenti antenna, cioè assorbono l’energia luminosa (a diverse lunghezze d’onda) e la convogliano tutta ai centri di reazione, dove la clorofilla a la converte in energia chimica. Dalla figura 8.6 si evince che ogni pigmento ha un proprio e diverso spettro di assorbimento, cosicché l’insieme dei loro spettri copre una porzione più completa dello spettro solare (Fig. 8.3), con un’efficienza termodinamica migliore. In realtà, i carotenoidi hanno anche un importante funzione, quella di fotoprotezione. Cioè i carotenoidi fungono da valvola di sicurezza, scaricando l'eccesso di energia luminosa (perché non utilizzata dal processo fotochimico), prima che questa possa seriamente danneggiare la pianta. Infatti se lo stato di eccitazione della clorofilla non viene trasferito rapidamente o utilizzato per la fotosintesi, l'energia in eccesso reagisce con l'ossigeno molecolare provocando il cosiddetto ''singoletto d'ossigeno'', cioè uno stato eccitato dell'O2, in grado di fare parecchi danni alla cellula vegetale. i carotenoidi evitano questo, estinguendo il surplus di fotoni luminosi e liberando l'energia sotto forma di calore. Infatti, è per questo che le piante si colorano di rosso se fortemente illuminate. Per difendersi. Tant’è che i carotenoidi vengono accumulati dalla pianta anche in organuli appositi, chiamati cromoplasti. E a volte accade che un improvviso deterioramento dei cromoplasti e dei carotenoidi al loro interno, renda la foglia vulnerabile agli attacchi della troppa luce, “bruciandola” letteralmente (per colpa dei ''singoletti d'ossigeno''). I sintomi sulla foglia possono essere macchie bianche, gialle o verde molto chiaro, che successivamente si tramutano in buchi. La causa del deterioramento di cromo e cloroplasti può dipendere da vari fattori, ma le più probabili cause sono 2. La prima causa è genetica, in quanto capita spesso che le piante mutino (genicamente o cromosomicamente, e la forte luce può fungere da catalizzatore....); spesso non ce ne accorgiamo, oppure sono mutazioni che la pianta riesce a riparare. La seconda causa può derivare dall'attacco di un virus, che fa di questi ''scherzi''. Tant'è che le variegature virali sono spesso utilizzate, rendendole prima inoffensive, per la creazione di varietà particolari di fiori e piante (foglie o fiori screziate di bianco o rosso).
Tornando ai fotosistemi I e II, l’energia da loro catturata viene immagazzinata sotto forma di ATP (adenosintrifosfato) e NADPH, delle vere e proprie monete energetiche.
Monete che vengono spese nella seconda fase della fotosintesi, chiamata ''reazione al buio'', perché la luce non è direttamente coinvolta (e non perché avvenga di notte, ndr). In questa seconda fase appunto, l'ATP viene utilizzato per la riduzione fotosintetica del carbonio (sotto forma di CO2) in zuccheri (saccarosio e amido), che vanno a costituire le riserve energetiche della pianta, per la sua crescita ed il suo sostentamento. Questa fase è detta anche ''Ciclo C3'' o ''Ciclo di Calvin''.
Nella respirazione, invece, (comune anche a noi animali) i zuccheri prodotti vengono ossidati (attraverso i processi di glicolisi, il ciclo di Krebs e la catena di trasporto degli elettroni) per produrre energia (sempre sotto forma di ATP), rilasciando CO2 e H2O.
Questo processo quindi è identico in tutti gli organismi eucarioti (cioè tutti, batteri esclusi).
Il regno vegetale, però, possiede un processo particolare (il cui reale significato biologico è ancora tutto da chiarire e dimostrare....), collegato strettamente (ne è parassita) alla fotosintesi, cioè la fotorespirazione.
La fotorespirazione, chiamata ''PCO'' o ''Ciclo C2'' è un processo che lavora in antitesi alla fotosintesi e consiste in una ossidazione (anzichè riduzione) del carbonio, con relativo consumo di O2 e produzione di CO2.
In pratica succede questo. Nel ciclo C3, la carbossilazione del ribulosio1,5-difosfato (che porta alla produzione di zuccheri) è catalizzata da un particolare enzima : la Rubisco (di sicuro l'enzima più abbondante sulla Terra, nonché il più prezioso). Questo enzima risulta particolare perché può catalizzare anche l'ossigenazione (oltre alla carbossilazione) dello stesso ribulosio1-5,difosfato, utilizzando O2 per produrre ATP (e CO2 come sottoprodotto). Il fatto che la Rubisco possa catalizzare entrambe le reazioni, porta ad una diminuzione nell'efficienza termodinamica della fotosintesi. Fortunatamente, dei 4 atomi di C sottratti dalla fotorespirazione alla fotosintesi, ne ritornano 3 (1 è perso come CO2).
Il bilancio produttivo tra fotosintesi e fotorespirazione, dipende dal rapporto tra le concentrazioni di CO2 e O2 e dalla temperatura. Cioè, più è basso il rapporto [CO2]/[O2], più è favorita la fotorespirazione. E poiché, più aumenta la T, più diminuisce il rapporto CO2/O2, ne deriva che all'aumentare di T, aumenta la fotorespirazione sulla fotosintesi.
Per inciso, in una soluzione acquosa a 25°C, il rapporto CO2/O2 è di 0,416 e la carbossilazione (fotosintesi) prevale sull'ossigenazione (fotorespirazione) per un rapporto di 3:1.
Da notare che le piante, in acqua, si affidano ad una ''pompa di CO2'', per concentrare questa nel sito di carbossilazione (ed anche evitare così il più possibile la fotorespirazione).
Tutto questo in normali e naturali condizioni ambientali. Ma se l'ambiente si fa estremo (come l'ambiente artificioso di acquari “spinti”) allora i meccanismi possono saltare. E un ambiente troppo ossidante (com'è quello saturo di ossigeno di una vasca in “pearling”) può portare alla formazione di radicali liberi (come il superossido O2- appunto, o il singoletto d'ossigeno o il radicale idrossilico). Senza contare che ci sono alcune molecole che aiutano questo processo ossidativo. Ad esempio il ferro bivalente (Fe2+) reagisce con O2 producendo superossidi (Fe2+ + O2- --> Fe3+ + O2-) e con H2O2 producendo i non meno pericolosi radicali idrossilici (Fe2+ + H2O2 --> Fe3+ + OH + HO-). Però anche qui le piante cercano di difendersi: infatti esse assorbono quanto più ferro bivalente possibile (perché indispensabile alla fotosintesi), ma per evitare che il surplus nelle foglie produca radicali liberi, lo immagazzinano (ossidandolo), attraverso una proteina di stoccaggio chiamata fitoferritina.
Comunque, come detto, tutto questo si fa più evidente e probabile in acquari molto "spinti", cioè con molta ma molta vegetazione, parecchia immissione di CO2 e continua somministrazione di fertilizzanti nella colonna d'acqua. Tant'è che in tali acquari risulta molto di aiuto la misurazione dei potenziali redox ed il mantenimento di un ambiente riducente (per il potenziale redox ed il suo significato, vedere i due topic relativi in Approfondimenti….)
E per questo inoltre che alcune case, tempo fa (ma forse ancora ora), proponevano la famosa interruzione del fotoperiodo, per far crescere meglio le piante e scongiurare il pericolo alghe (sempre in acquari “estremi”). Infatti, ponendo la vasca temporaneamente in penombra, non facciamo altro che fare in modo che l'O2 venga consumata ed il rapporto CO2/O2 si ''riassesti'' per ottimizzare al meglio la fotosintesi.
Ma tutto questo, vale per le piante come per le alghe. Quindi tale metodo può servire per migliorare ULTERIORMENTE la crescita delle (molte) piante, quando queste sono già in forma e le condizioni ambientali sono “dopanti” (tanta luce, tanta CO2, tanta fertilizzazione……). Ma non serve assolutamente per sconfiggere le alghe o guarire piante malconce.
Riguardo la durata del fotoperiodo, questa è in stretta relazione con il tipo di acquario, con le specie e la quantità di piante considerata, con la disponibilità di CO2 ed anche, più che la potenza (poco indicativa), con la densità di flusso fotonico (o velocità di fluenza fotonica) espressa come unità di moli su m2 al secondo (gli strumenti che misurano tale grandezza si chiamano sensori quantici, ndr). Per dare una misura, la densità di flusso fotonico in piena luce solare è di circa 2.000 micromoli m-2s-1. Ad esempio, in un classico acquario “olandese” ci sono molte piante e presumibilmente esigenti di luce (come le rosse ad esempio) che vogliono (o possono avere) fotoperiodi più lunghi delle 8-10 ore solite, riuscendo a sfruttare, quindi, anche le 12 ore. Ma sempre che ci sia sufficiente CO2 da utilizzare.
Infine, non possiamo parlare di fotosintesi in acquario senza fare una distinzione nell’assimilazione della CO2 tra le piante acquatiche e quelle terrestri, con differenze nella morfologia, nell’anatomia e nella fisiologia. Per piante acquatiche io intendo, oltre a quelle strettamente acquatiche (Ceratophyllum, Egeria, Myriophyllum, Vallisneria,…) anche quelle specie che, se sommerse, riescono a modificare la propria struttura (anatomica e fisiologica) alle condizioni di vita sommersa (Echinodorus e Cryptocoryne, ad esempio). Ma non tutte le specie che noi abbiamo in acquario ci riescono (le Anubias ad esempio).
I tessuti atti alla fotosintesi contribuiscono, nelle piante acquatiche, con una frazione, sul peso totale della pianta, molto maggiore rispetto a quelle terrestri, in quanto i tessuti per il sostegno e la difesa sono molto meno sviluppati. Cosicchè, nelle cellule dell’epidermide (quelle che ricoprono la superficie della foglia) delle piante acquatiche ritroviamo la clorofilla, che nelle piante terrestri è relegata nel mesofillo (in sezione, la zona centrale della foglia, compresa tra la pagina inferiore e quella superiore).
Le piante acquatiche, inoltre, possiedono un aerenchima molto più sviluppato rispetto a quelle terrestri. L’aerenchima è un tessuto parenchimatico con ampi spazi intercellulari in grado di far passare i gas. Cosicché le piante acquatiche riescono ad ossigenare meglio anche le parti sommerse che si trovano in zone povere di ossigeno e riescono ad accumulare la CO2 in tali spazi, per poi riutilizzarla anche quando l’acqua né è povera, ossia dopo mezzogiorno. Considerando inoltre il fatto che la diffusione della CO2 in acqua è 10.000 volte inferiore che nell’aria. Addirittura alcune piante (come il Papiro) accumulano la “preziosa” CO2 prodotta dalla respirazione e la riutilizzano (il 35%) per la fotosintesi. Altre piante invece, strettamente acquatiche e originarie di ambienti di acque dure, riescono ad utilizzare come fonte di carbonio anche gli ioni bicarbonato (HCO3-) disciolti in acqua e quindi crescere bene anche in ambienti poveri di CO2. Esempi in tal senso sono Ceratophyllum demersum, Egeria densa, Vallisneria spiralis e Hydrilla verticillata.
Un’altra questione da considerare è che, nelle piante acquatiche, i tassi di assimilazione di CO2 sono molto più bassi rispetto a quelli delle piante terrestri, per il semplice fatto che la superficie totale dell’area dei cloroplasti per unità di superficie fogliare è minore (2-6 cm2/cm2) rispetto alle piante terrestri; quindi viene ridotta la conduttività della CO2 e la sua diffusione nei siti di carbossilazione. Anche il numero totale di plastidi per unità di superficie fogliare è minore nelle piante acquatiche (2-6 106/cm2). In considerazione di ciò e visto che la perdita di acqua dai tessuti fogliari e le problematiche ad essa collegate non sussistono, nelle piante acquatiche regrediscono o scompaiono del tutto (ad esempio nel Ceratophyllum) gli stomi, ossia quelle aperture regolabili sulla pagina inferiore delle foglie che permettono o meno l’entrata e l’uscita dei gas (come CO2 e H2O), in modo da avere la massima diffusione della CO2 nei tessuti. Nelle piante galleggianti invece, gli stomi si sono spostati dalla pagina inferiore a quella superiore delle foglie.
Anche la densità cellulare delle piante acquatiche (1000 mg/dm2) è molto più bassa di quelle terrestri, in relazione all’aumento degli spazi intercellulari e dell’aerenchima, mentre, per lo stesso motivo, hanno uno spessore della foglia molto elevato (2000 µm).
Tutto questo a grandi linee, in modo da poter disporre di un ampio “canovaccio” su cui proporre spunti, interventi e discussioni.
Ora sta a voi decidere direzioni e livelli di approfondimento……..
Entropy non è in linea   Rispondi quotando
 

Tag
acqua , fotosintesi , piante or chimica

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