Guppy
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Guarda che capitano ch c'avete buona lettura:
Titti un uomo solo al comando
Adesso che Francesco Totti gioca sa solo nella metà del campo avversaria in una riomma liberata da ogni altro talento (fuori Montella, lontano Cassano) ripenso, guardandolo, alle belle ragazze della mia adolescenza. Dell’adolescenza di chiunque. Non bastava loro essere belle, dovevano risaltare. Così non uscivano mai insieme. Avevano sempre a fianco un’amica bruttina, o un gruppo di amiche incolori. Alla fine, per disarmante che sia, questo può spiegare perché Titti gioca benissimo nella riomma, e non azzecca mai la striscia vincente in nazionale.
Ma il personaggio è più complesso di così. Titti è il miglior giocatore italiano (Cassano, parere personale, è potenzialmente fuori da ogni classificazione). E’ il figlio prediletto di una città (o meglio dei due terzi) che gli dedica murales indelebili, considerandolo un santo patrono capace di indicare la via del cielo. E’ oggetto di devozione. Gli si devolvono offerte, come solo agli dei. Il 18 gennaio scorso l’ambulanza del “Pet soccorso” gli ha consegnato due cuccioli di Labrador come omaggio dello sponsor per la nascita del suo cucciolo di uomo. E’ l’unica faccio italiana sui palazzi di Shanghai, nei cartelloni della Pepsi tra Ronaldinho e Roberto Carlos. E’ un pretesto per vendere di tutto: mouse per computer, zainetto per scuola, magliette (chiamate curiosamente “Psicho 10”) e, perfino, libri (benché di barzellette). Ma è, soprattutto, il simbolo di una generazione, con un percorso che ne ricalca la parabola. Per seguirla bastano quattro anni, quelli che passano da un Europeo (d’Olanda) all’altro (di Portogallo). Ascesa e frenata di un calciatore straordinario, di un maschio ordinario.
Un cucchiaio di coraggio
La cosa più paradossale è che a far compiere a Titti il salo di qualità sia stato un allenatore laziale, benché in quel momento sulla panchina azzurra: Dino Zoff. Accadde all’Europeo del 2000. Titti ci arrivò come uno dei ventidue della rosa debilitata dall’infortunio dell’attaccante principale: Christian Vieri. Si aprivano, là davanti, insperate praterie, ma l’aspettativa di tutti era che a cavalcarle fosse il duo tascabile Del Piero-Inzaghi. Invece Zoff mandò dentro Titti.
Il ragazzo partì lento, la critica oggi probabilmente rinnegherebbe il proprio operato, ma invocò Del Piero, invocò Del Vecchio. Del Titti non si fidava. Non capiva bene che animale fosse. Non l’hanno ancora capito. Centrocampista? Trequartista? Seconda punta? Centravanti? A corto di punte, una domenica di primavera Gigi Maifredi schierò al centro dell’attacco del Bologna Renato “il mitico” Villa, già ottimo magazziniere e valido stopper. Segnò. E di testa, benché tracagnotto. L’allenatore, già fantasioso venditore di champagne e aspirante filosofo commentò: “I ruoli sono fatti per essere reinventati”.
A Titty quella squadra piaceva perché non c’era intorno nessuno che potesse fargli ombra. E cominciò a brillare, un po’ di più a ogni partita. Era giovane, era incosciente, era James Dean al suo secondo film, già abbagliato dai suoi fari di una luminosa carriera che avanza contromano. Barattò la storia con la leggenda. Nel cerchio di centrocampo, al momento dei rigori decisivi contro l’Olanda padrona di casa, davanti ad un piatto milionario decise di bluffare con una coppia di fanti, di fregarsene dell’etica e votare per l’estetica, di giocare anziché di vincere.
In un mondo ragazzo non occorre sbagliare da professionisti. Per questo a volte si finisce per fare la mossa giusta. Titty consegnò ai posteri la frase: “Mò je faccio er cucchiaio”, preannunciando il pallonetto centrale, come se fosse una partita di biliardo e dichiarasse “la tre in buca d’angolo”e si accingesse a tentare una carambola con gli occhi chiusi e la stecca dietro la schiena. Poi forse non la pronunciò davvero mai, quella frase, ma che cosa conta? Va a sapere se davvero Cambronne disse “Merde!” e Giulio Cesare con il Rubiconde a bagnargli i gambaletti trovò il tempo per esclamare “Il dado è tratto”!
Perfino le foto che hanno fatto epoca erano talmente taroccate, figurarsi le parole.
Conta quel che tramandiamo, non quel che è stato. “Mò je faccio er cucchiaio” è un’eredità di coraggio, l’affermazione che il viaggio conta più del traguardo, il modo più del risultato. Che si può essere sventati e farla franca. I rigori sono tiri pesanti, le devi ammantare di leggerezza. Uno dei giocatori più seri di tutti i tempi, Roberto Donadoni, sbagliò il suo compitino eseguito con precisione nella semifinale di Italia ’90 davanti all’Argentina. L’incollocabile Titty mise dentro “er cucchiaio” e portò la squadra in finale. E’ nata una stella?
Le scarpette del diavolo
Quattro anni più tardi, in Portogallo, l’allenatore della nazionale Giovanni Trapattoni era convinto che quella stella non soltanto fosse nata, ma stesse per illuminare la strada per Lisbona, fino al traguardo finale. Il suo errore più grave fu dirlo pubblicamente: “Ho fatto una squadra intorno a Titty”. L’unico dubbio rimasto pareva: è già più forte di Zidane? Il ct non si limitò a consegnargli le chiavi di casa, come si fa con i ragazzini quando maturano; gli affidò qualcosa di più, qualcosa di pesantissimo e intollerabile: una responsabilità.
C’è una generazione di maschi italiani, compresi tra i venticinque e i cinquanta, che ha sviluppato una incurabile allergia per le responsabilità. E’ cresciuta all’ombra delle teorie del complotto (“noi non c’eravamo, non è colpa nostra, è un teorema della magistratura, un’invenzione della stampa”) e ha passato la linea d’ombra senza maturare.
All’uscita da una partita dell’Under 21, dopo una prestazione scarsa, disse Alessandro Nesta (a lungo l’alter ego laziale di Titty): “Non devo dimostrare niente a nessuno”. Chissà fosse stato Beckenbauer.
E’ stato uno degli errori più grandi che si possano commettere nella vita: ogni partita annulla le precedenti, ci si giudica per quella e non per il passato, specialmente se è durato due anni.
Titty a quel punto aveva vinto uno scudetto (ma i gol che avevano stroncato la rincorsa della Juventus li avevano segnati Montella e Nakata), era entrato nella All Star dei testimonial, ma doveva ancora conquistare qualcosa lontano dall’Olimpico, dall’adorazione del Testaccio, da se stesso. Per farlo si pettinò con cura, indossò le scarpette nuove preparate dallo sponsor, andò in campo con la Danimarca, giocò male e sputò all’avversario che lo marcava. Prima che quest’ultima cosa si ripetesse, meritandogli una ramanzina da Cassano(come ricevere una stretta di mano da Muzio Scevola), fronteggiò il fiasco incolpando le scarpette nuove. Non voleva responsabilità, non se la prese.
Giocar male non è un peccato, rifiutare di ammetterlo neppure, ma scaricare le colpe su due tomaie strette si. Di tutte le teorie del complotto, la più ridicola. E’ lì che Titty h scritto la parola “fine” alla sua “gioventù bruciata”: James Dean ha fatto tre film ed era diventato, proprio per questo, un mito. Fosse vissuto a lungo e avesse continuato a recitare si sarebbe trovato a un bivio: o diventava immenso come Marlon Brando e si fermava alla tollerabile piacevolezza di Leonardo Di Caprio. Titty, la seconda che ho detto.
Poi il calcio e la vita ammettono spesso i supplementari e la prova contraria. Può darsi che Titty si presenti al Festival a fianco della moglie dicendo: “Sono l’uomo che ha accompagnato Ilary a Sanremo”. Che vada in Germania e, come fece il suo compagno di maglia Bruni Conti, metta il pallone decisivo sulla testa di Luca Toni scrivendoci su “Basta spingere”. Il tempo delle bizze sarebbe finito perché non ci sarà un altro mondiale, forse neppure un altro europeo per lui e per quella generazione di fenomeni che hanno fatto un cucchiaio, ma non hanno mai finito di apparecchiare la tavola.
Quando si è il miglior giocatore in campo occorre fare ancora solo una trascurabile cosa: dimostrarlo.
Vanity Fair 9 febbraio 2006
di Gabriele Romagnoli
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