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Sono laziale. E penso che gli altri mi tollerano con un certo fastidio.
Non posso sottrarmi a una leggera impressione di superiorità che forse mi brilla dentro agli occhi.
Come potrei dire, agli altri, che sono un esempio assurdo, una specie di sole che nasce a occidente, che sono quello che cammina al contrario, quello che non ha paura del buio? Come potrei dirgli che sono diverso, e che la mia diversità non la fa solo una passione sportiva, una curva piuttosto che un’altra? Come potrei spiegargli che no, mi sono scelto un palcoscenico del mondo precluso alle comparse e ai figuranti?
Ho visto in questa città, per due volte, la prima quand’ero bambino, la seconda quand’ero già uomo, arrancare uno squallido carnevale di colori tetri, cortei di muli in pennacchio e gualdrappe, fodere gialle e rosse espulse a profusione da setifici abusivi, scialli e immondizie che hanno deturpato meraviglie millenarie. Li ho sentiti gridare come porci affamati, agitare mammelle colorate, riunirsi a migliaia in nome di un’invenzione pagana usurpatrice di Roma.
Da bambino, tutto questo ha rafforzato le convinzioni del mio carattere, ha formato una corazza, ha inciso i miei geni in profondità, dentro al sangue.
Da uomo, ha fatto sbocciare ali più grandi del vento, ha smascherato la grandezza della mia idea, la gentilezza dei miei colori, la magnificenza del simbolo a cui ho legato il mio nome.
E che Roma precipiti se questo non è bastato a inventarne altri mille come me!
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