Discolo
31-05-2007, 15:26
Il 30 maggio saranno dodici anni. Dodici anni di silenzi oziosi, di parole perdute, di tanta acqua corsa sotto i ponti, di pochi accenni alla memoria. Saranno dodici anni di tenerezza, di quella tenerezza che spetta anche ai nemici di cui hai nostalgia, dei Capitani (quelli sì, con la maiuscola) che ti hanno sfidato sul campo a viso aperto, senza arretrare di un passo, con l’allegria di vincere e l’emozione di perdere, sempre e comunque a testa alta e infinito rispetto, come si conviene tra uomini nobili.
Agostino Di Bartolomei lasciò una lampada spenta il cui oro brilla ancora nel buio, poche parole confidate a una pistola, un silenzio che turba e annichilisce, un vento fresco e ignaro che ogni tanto ci riporta alla mente il suo viso dimenticato, con una traccia di nero dentro agli occhi, una turba di angoscia affilata in un sorriso che non rideva mai.
Morì a dieci anni esatti dalla finale di coppa dei campioni persa all’Olimpico (30 maggio 1984 – 30 maggio 1994) sparandosi un colpo di pistola al cuore, dopo essere affogato in quella vaghezza, in quegli eterni campi “dov’è silenzio e tenebre la gloria che passò”. E da allora, ogni volta che si fa il suo nome, la coscienza di ciascuno sprofonda sotto il peso di un mistero incontenibile, che sembra necessitare di un luogo più spazioso dell’anima. Per un centrocampista che ha detto basta perché tutto è nulla, il nostro dolore è dentro quel nulla.
C’è un calcio che non torna più, un calcio fatto di figurine e di madonnine che si vedevano dallo stadio sulla collina di Montemario, c’è un calcio di umiltà e di cappellini fatti coi giornali per non scottarsi la testa al sole. C’è una vita impercettibile, silenziosa come un ruscello che fugge sotto alberi dimenticati. Magari c’è anche un campo di pallone, dove in una vaga luce in lontananza, fra radure di foglie, corrono due ragazzi accomunati dal destino, da un colpo di pistola, uno biondo e l’altro moro, corrono, corrono, mettendo in mezzo un pallone da contendersi, corrono due maglie, una celeste e l’altra rossa, corrono Cecco e Ago. Ma poi magari ti accorgi che tutto questo è solo in un qualche angolo di te stesso, che gli Dei sono venuti più tardi, e che anche gli Dei passano.
Riposa in pace, ciao Ago.
Agostino Di Bartolomei lasciò una lampada spenta il cui oro brilla ancora nel buio, poche parole confidate a una pistola, un silenzio che turba e annichilisce, un vento fresco e ignaro che ogni tanto ci riporta alla mente il suo viso dimenticato, con una traccia di nero dentro agli occhi, una turba di angoscia affilata in un sorriso che non rideva mai.
Morì a dieci anni esatti dalla finale di coppa dei campioni persa all’Olimpico (30 maggio 1984 – 30 maggio 1994) sparandosi un colpo di pistola al cuore, dopo essere affogato in quella vaghezza, in quegli eterni campi “dov’è silenzio e tenebre la gloria che passò”. E da allora, ogni volta che si fa il suo nome, la coscienza di ciascuno sprofonda sotto il peso di un mistero incontenibile, che sembra necessitare di un luogo più spazioso dell’anima. Per un centrocampista che ha detto basta perché tutto è nulla, il nostro dolore è dentro quel nulla.
C’è un calcio che non torna più, un calcio fatto di figurine e di madonnine che si vedevano dallo stadio sulla collina di Montemario, c’è un calcio di umiltà e di cappellini fatti coi giornali per non scottarsi la testa al sole. C’è una vita impercettibile, silenziosa come un ruscello che fugge sotto alberi dimenticati. Magari c’è anche un campo di pallone, dove in una vaga luce in lontananza, fra radure di foglie, corrono due ragazzi accomunati dal destino, da un colpo di pistola, uno biondo e l’altro moro, corrono, corrono, mettendo in mezzo un pallone da contendersi, corrono due maglie, una celeste e l’altra rossa, corrono Cecco e Ago. Ma poi magari ti accorgi che tutto questo è solo in un qualche angolo di te stesso, che gli Dei sono venuti più tardi, e che anche gli Dei passano.
Riposa in pace, ciao Ago.